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Gabbani, il Postmoderno ed il successo a Sanremo

Passa un pulmino di bambini di sette anni, che cantano tutti a squarciagola “Occidentali’s Karma”.

Questo mi ha fatto riflettere su quanto il brano di Gabbani sia andato oltre alcuni tormentoni estivi come diffusione (penso a “Buon viaggio” di Cremonini) o come senso e significato (“Andiamo a comandare” di Rovazzi, che pure tutti cantavano e cantano). Cerco di spiegarmi meglio.



Dagli anni ’80 la canzone italiana, dopo la grande rivoluzione dei cantautori che hanno messo al centro dei brani le loro vicende personali, reali o almeno verosimili, da quelle private (Baglioni,Tenco,Paoli) a quelle politiche (Guccini,Vecchioni) o a quelle sociali o filosofiche (De Andrè, Battiato – cito ovviamente solo alcuni nomi), ha cercato di innovarsi con un linguaggio che contamina sempre di più alto e basso, seguendo il gusto post-moderno della cultura del secondo novecento, evidente in tutti gli aspetti della cultura stessa, dalla letteratura all’arte, fino ad arrivare ovviamente al cinema (si pensi al citazionismo di Kubrik o soprattutto di Tarantino). Così è stato anche per la canzone, con un leggero ritardo rispetto alle altre forme d’arte contemporanee, per motivi che non ha senso indagare in questa sede. Questa contaminazione di spiccato gusto post-moderno è evidente anche in Gabbani, ma è la prima volta che un brano di questo genere riesce 1. a vincere il festival di Sanremo; 2. ad arrivare così a tutti. Il brano più innovativo che aveva vinto il Festival degli ultimi anni era sicuramente “Ti regalerò una rosa” di Cristicchi, 2007, che però non segue il filone della contaminazione, ma prosegue una serie di evoluzioni linguistiche (e musicali) dettate dall’incontro con la lingua del Rap, avvenuto in Italia a fine anni ’80, e che ha portato ad una lingua più sciolta, a periodi più lunghi e a sintassi molto più articolata (si pensi per esempio ai Tiromancino o ai Negrita). Negli anni ’90 Elio e le storie tese era arrivato al grande pubblico del Festival con “La terra dei cachi”, arrivata seconda dietro la decisamente più classica “Vorrei incontrarti tra cent’anni” di Ron. La canzone di Elio, che proseguiva le innovazioni del rock demenziale, soprattutto emiliano, era riuscita in due grossi intenti: 1. trasmettere attraverso una contaminazione molto marcata e un citazionismo che va da Nilla Pizzi a Scalfaro un messaggio di fondo di critica sociale all’Italia di quegli anni, ma di farlo sorridendo, dimodoché chiunque cantasse la canzone in qualche modo fosse portatore di quel messaggio di critica; 2. creare qualcosa di simile a un vero e proprio tormentone: in tanti cantavano “Italia si, italia no” in quegli anni.

Ovviamente il brano di Elio si inserisce in una storia ben precisa del gruppo ed in uno stile di cui gli “Eli” sono stati antesignani, innovatori e mirabili esecutori per diversi anni (e lo sono tutt’ora). Gabbani ha fatto qualcosa di simile, in anni in cui però la lingua della canzone (e la canzone stessa), soprattutto quella di grande diffusione, aveva fatto dei grossi passi indietro. Da sempre il Festival è ovviamente e per sua natura conservatore, e più vicino alle canzonette che ai cantautori (non a caso anche grandi cantautori come Zucchero non sono riusciti a vincere, anzi, Zucchero con “Donne” si è classificato penultimo, anche se come autore ha vinto con “Luce” interpretata da Elisa; invece tanti, come Baglioni o Tiziano Ferro, vi hanno partecipato solo come super ospite, o tanti altri, come De Gregori, non vi hanno mai messo piede), ma basta passare in rassegna le classifiche (sia del Festival che delle radio) per vedere che brani come “La terra dei cachi” o “Occidentali’s Karma” (esclusi questi due e pochissimi altri) non vi trovano spazio: si passa anche da canzoni belle come “Chiamami ancora amore” di Vecchioni, a canzoni che sembrano uscite da dischi degli anni 60, come la pur bella “Che sia benedetta” della Mannoia o le meno belle “Se si potesse non morire” dei Modà e “Colpo di fulmine” di Lola Ponce, fino ad arrivare ai tormentoni demenziali come “Andiamo a comandare” (già su “Vorrei ma non posto” andrebbe aperta una parentesi, perché J-Ax è autore discretamente bravo soprattutto a fine anni ’90, e con un messaggio, oggi un po’ datato, ma che in quegli anni aveva avuto una buona valenza sociale). Gabbani prosegue allora quella linea di Elio in anni in cui le canzoni di gusto così contaminato sono poche, in cui si preferisce la ripetizione nauseante di frasi, senza la pretesa di dare un significato profondo a quello che si sta dicendo (tendenza che prende sia il Ligabue di “Sale della terra” che il Vecchioni di “Sei nel mio cuore”). Gabbani fa qualcos’altro: contamina materiali linguistici diversi e disparati, dal sanscrito al francese al greco, in un tessuto non basato su semplici ripetizioni di versi o moduli, infarcendolo di citazionismo a go go (da Marylin Monroe a Eraclito e ai musical americani), con l’obiettivo (abbastanza preciso) di sferrare una critica alla nostra società, utilizzando come pretesto la tendenza orientalizzante che da diversi anni ha preso piede nella cultura occidentale, forse segnandola per sempre (ai posteri l’ardua sentenza!). L’intento è quello di divertissment (era stato così anche l’anno prima con “Amen”), ma l’obiettivo è quello di far pensare attraverso la magia delle parole, con un tono da filastrocca che ne aiuta facilmente la memorizzazione.



“Occidentali’s karma” riesce quindi ad arrivare a tutti: ai bambini, che, come quelli che ho incontrato questa mattina, ne cantano tutti i versi con una memoria spaventosa, cosa che personalmente non ricordavo (neanche l’orribile “I bambini fanno oh” di Povia era stata cantata così tanto), anche se ovviamente ai più piccoli sfugge (giustamente) il significato di fondo del brano (ma siamo sicuri che tutti, anche i più grandi, abbiano compreso il significato di fondo di brani che tutti conoscono come “Il pescatore” di De Andrè o “Voglio una donna” di Vecchioni, nato tra l’altro come tormentone per il Festivalbar??); arriva agli adulti, almeno a quelli che sanno leggere oltre le citazioni, quelli che magari si sentono toccati perché mangiano un po’ troppo Sushi o vanno a troppe lezioni di yoga, oppure quelli che si ergono a giudici dietro facebook (i “sociologi del web”) contro i terroristi al grido di “islamici di m**** “, oppure a quelli che si sentono i padroni del mondo perché sanno usare uno smartphone, e non si accorgono in realtà che “l’evoluzione inciampa”…; arriva al cuore della storia della canzone italiana, quel Festival di Sanremo che mai era riuscito a consacrare regina un brano così post-moderno. Così dopo “Chiamami ancora amore” di Vecchioni del 2011, che era riuscito a conciliare (anche se per alcuni non è ancora così) il binomio antitetico canzone d’autore-canzone popolare (che senso ha quando si parla di cultura popolare contrapporre alto e basso? tipica abitudine italiana alla Guelfi-Ghibellini, o alla Milan-Inter), ora Sanremo si apre alla rivoluzione di Gabbani: chissà se vedremo in futuro ancora pezzi del genere, o se si ritornerà alle rime, ai troncamenti, alle inversioni, alle canzoni strappa lacrime dell’ “amore mio”. Per ora godiamoci questa novità!

Luca Bertoloni

In foto: il mio amico Luca Bertoloni col grande Roberto Vecchioni, che onore!

4 commenti su “Gabbani, il Postmoderno ed il successo a Sanremo

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